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Su «Nature» di dicembre 2008 è apparso un articolo fir- mato da sette scienziati (primo dei quali Henry Greely della Stanford University) che merita alcune riflessioni1. Pare che nelle Università statunitensi almeno il 7% degli studenti assuma in modo improprio farmaci come il Ritalin2 e l’Ad-derall3 (prescrivibili per la cura dell’Adhd, il Disturbo da deficit attentivo con iperattività in età evolutiva)4 al fine di accrescere le proprie capacità di lavoro intellettuale5. L’au-mento del potenziale cognitivo è reso possibile dal fatto che una delle conseguenze dell’assunzione dei suddetti farmaci è il miglioramento del livello di concentrazione e di man-tenimento dell’attenzione. L’impiego improprio di Ritalin e Adderall è vietato dalla legge e, in sostanza, rappresenta 1 H. Greely, B. Sahakian, J. Harris, R.C. Kessler, M. Gazzaniga, P. Campbell, M.J. Farah, Towards Responsible Use of Cognitive-Enhancing Drugs by the Healthy, «Nature», 456, 11/12/2008, pp. 702-705. Campbell è l’Editor-in-chief di «Nature».
2 Nome commerciale del Metilfenidato.
3 Nome commerciale di una particolare miscela di Sali di Amfetamina.
4 Adhd è l’acronimo di Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder. Si tratta di una patologia neuro-psichiatrica che insorge in età infantile ma che può permanere anche nella maturità. I sintomi dell’Adhd sono l’iperattivi- tà, l’iper-reattività, la mancanza (parziale o totale) della capacità di mante- nimento della concentrazione. L’eziologia dell’affezione è sconosciuta, ma si ritiene che essa possa avere una base genetica. I bambini affetti da Adhd presentano sviluppi anomali delle varie aree cerebrali (alcune sono sovra- dimensionate rispetto alle norma, altre sono invece sottodimensionate) e disturbi della neurotrasmissione (in special modo della dopamina).
5 Pare però che in alcuni atenei questa percentuale arrivi a sfiorare il una vera e propria forma di doping6. Tuttavia, fino a oggi, il doping si era presentato come un’assunzione impropria e illecita, effettuata da persone sane, di sostanze farmacologi-che per l’aumento delle sole prestazioni fisiche, non intellet-tuali. Per di più, si limitava a una categoria numericamente limitata – gli sportivi di professione –, mentre ora potrebbe allargarsi fino ad assumere connotati di universalità.
Analizzando questo fenomeno, gli studiosi giungono a una conclusione: per loro, l’incremento cognitivo farmaco-logicamente indotto (d’ora in poi Icfi) non è un male in sé. Al contrario, può essere un beneficio per gli individui e la società nel suo complesso, qualora sia regolato in maniera adeguata. Da un punto di vista etico, infatti, Greely e gli altri non muovono obiezioni significative in merito all’assunzione di farmaci per l’incremento cognitivo da parte di persone in perfetto stato di salute. A loro avviso, l’Icfi è da considerar-si un mezzo di accrescimento mentale (e quindi, culturale) assimilabile alle invenzioni della scrittura, della stampa e di internet. Essi sostengono anche che la vita dell’uomo con-temporaneo mantiene ormai relazioni minime con lo stato naturale della nostra specie e dichiarano di non comprende-re il motivo per il quale si accettano tutti gli strumenti dello sviluppo cognitivo, ma non quello derivante dall’impiego di farmaci. Meglio allora consentire l’Icfi con una politica basata sulla tutela della sicurezza, della libertà e della tra-sparenza. In merito a quest’ultimo punto, Greely e gli altri affermano che, considerando un esame in cui unicamente una determinata percentuale di persone può essere promos-sa, l’accesso limitato all’Icfi crea una situazione di disparità (non dissimilmente da un test di matematica in cui solo po-chi studenti possono utilizzare la calcolatrice). Questa dispa-rità va ad aggiungersi ad altre di tipo socio-economico. Se la possibilità di accrescere il proprio potenziale intellettuale è troppo costosa, essa diventa un privilegio per i soli ricchi, suggeriscono gli autori. Per questo, un modo di mitigare 6 Oltre a quelli indicati, anche altri farmaci vengono impiegati per l’accrescimento delle proprietà intellettuali. Tra essi si ricordano il Provi- gil (nome commerciale del Modafinil, una sostanza approvata per il trat- tamento della fatica derivante da disturbi del sonno) e l’Aricept (nome commerciale del Donepezil, sostanza che serve per la cura delle malattie questo squilibrio è consentire a tutti l’accesso all’Icfi (gli au-tori dell’articolo di «Nature» ricordano che le scuole forni- scono a tutti gli studenti i computer, non solo ad alcuni).
Lo studio di Greely e dei suoi colleghi fa seguito a un sondaggio, publicato sempre su «Nature», dal quale è emerso che su 1.427 scienziati di sessanta paesi diversi, 288 (oltre il 20%) ha fatto o fa uso di questi farmaci in vista di impegni scientifici gravosi. Dal medesimo sondag-gio è emerso che circa l’80% degli scienziati è favorevole all’assunzione di Ritalin e medicinali analoghi per incre-mentare il potenziale cognitivo7.
Fin qui i fatti, ora il commento. In qualsiasi forma lo si declini, il progresso ha sempre qualcosa di coinvolgente, fi-nanche di conturbante, per cui nell’immediato il lettore che si trova di fronte a simili conclusioni difficilmente riesce a sottrarsi a un’assoluta fascinazione. Tuttavia, dopo un po’ di tempo questa lascia il posto a una sensazione di perplessità che porta a domandarsi se e a chi giovi realmente l’Icfi e quale sia la logica a esso sottesa.
Occorre sgombrare il campo da un possibile equivoco. Il desiderio di migliorare il potenziale intellettivo dell’uomo non nasce oggi, ma affonda le sue radici in epoche lontane. I primi grandi passi dell’arte della mnemonica sono merito del poeta greco Simonide di Ceo (556-468 a.C. ca.), il quale iniziò ad associare nomi ed oggetti che si dovevano ricorda-re a delle immagini. Da allora il tema della memoria divenne molto discusso nel pensiero classico (ne trattarono, tra gli altri, Aristotele, Cicerone, Quintiliano, Agostino d’Ippona) ed in quello medievale (Alberto Magno, Tommaso d’Aqui-no). Nella prima età moderna i trattati sulla memoria si diffusero e uomini come Giovanni Pico della Mirandola, Giulio Camillo Delminio, Giordano Bruno (e prima di essi, lo spagnolo Raimondo Lullo) fecero dell’arte mnemonica la base delle loro teorie filosofiche8.
Non si deve poi dimenticare come il mondo dell’arte, al- 7 Sostanze psicotrope per lavorare. Le usa uno scienziato su cinque, in http://www.repubblica.it/2008/04/sezioni/scienza_e_tecnologia/farma- ci-ritalin/farmaci-ritalin/farmaci-ritalin.html (articolo datato 11 aprile 8 Cfr. F.A. Yates, L’arte della memoria, Einaudi, Torino 1972 (ed. or. meno dal Romanticismo in poi, ha sovente teso a dilatare le esperienze del percettibile per trovare nuove fonti di ispira-zione: nell’ultima parte del XIX secolo, ad esempio, Char-les Baudelaire, Arthur Rimbaud, Vincent Van Gogh, Oscar Wilde (e altri dopo di loro) erano soliti consumare assenzio e sotto i suoi effetti (veri o presunti) portare a termine le loro opere9. In tempi più recenti, la Beat generation statuni-tense ha “viaggiato” e prodotto cultura assumendo Lsd10, e le droghe sintetiche costituiscono oggi parte non irrilevante nel processo di produzione (e nella costruzione identitaria) di vari artisti, specie in ambito pop-rock11. Senza esprimere alcun giudizio di valore, va ricordato che il ricorso a simili sostanze veniva e viene fatto non per produrre di più, ma per produrre “altro”, per cui queste esperienze poco o nulla hanno a che vedere con quanto accade oggi nelle università statunitensi.
Appurato che l’ambizione di migliorare le prestazioni intellettuali umane non nasce oggi, risultano invece pecu-liari le modalità che gli estensori dell’articolo di «Nature» ritengono legittime al fine di determinare l’incremento co-gnitivo. Rossella Ghigi ha recentemente ricostruito sotto il profilo storico-sociologico un’altra forma di miglioramento della persona, quella legata alla dimensione fisica e alla tra-sformazione del corpo mediante la chirurgia estetica. Indi-viduando nell’inizio del XX secolo un momento di svolta assai significativo, Ghigi ha scritto: Sarebbe […] erroneo pensare che le consumatrici di cosmetici e bel- letti idealizzassero la “bellezza artificiale” […]. L’idea di una bellezza naturale è sempre stata valorizzata nelle diverse epoche; ciò che è cam- biato è il suo contenuto, nella misura in cui è stato via via spostato il confine tra ciò che viene definito naturale e ciò che non lo è. Potrem- mo dire piuttosto che tra gli anni Venti e Trenta del Novecento questo confine conobbe uno spostamento cruciale. L’entrata delle donne nel mondo del lavoro, la fioritura dell’alta moda, il moltiplicarsi delle im- magini delle celebrità al cinema e sulla carta stampata, la migrazione verso le grandi città modificarono progressivamente l’immaginario 9 Sul tema, P. Baker, Il libro dell’assenzio, Voland, Roma 2008.
10 Cfr. D. Black, Acid. Storia segreta dell’Lsd, Castelvecchi, Roma 2005; T. Leary, Il grande sacerdote. Il libro più importante e rivoluzionario sull’Lsd, Shake, Milano 2006.
11 Sul tema può essere visto W. Stuart, Fuori di testa. Storia culturale delle alterazioni dall’assenzio all’ecstasy, Mondadori, Milano 2008.
della bellezza femminile ideale, caricandolo di nuovi significati quali “emancipazione” e “modernità”. Anche per questi motivi la stigmatiz- zazione dell’uso dei cosmetici da parte delle signore andò diminuendo (o meglio, venne meno l’identificazione tra cosmetici e prostituzione). L’efficacia della strategia pubblicitaria dei venditori di cosmetici fu proprio quella di spostare il confine tra naturale e artificiale, abituando lo sguardo a considerare naturale anche un viso truccato. Il make up veniva reso invisibile non tanto perché leggero, quanto perché rientra- va tra i caratteri “dati per scontati” del volto femminile.12 Per Ghigi, questo fu il passo che portò alla legittimazione della chirurgia estetica e al suo, per così dire, sdoganamento: da tecnica per la ricostruzione di corpi mutilati, essa poté di-venire pratica di miglioramento di visi e corpi appartenenti a persone fisicamente integre e non deformi, ma che pre-sentavano deviazioni dai canoni estetici socialmente domi-nanti. Analogamente, la proposta dell’articolo di «Nature» non mira a esaltare l’artificialità, ma ad ampliare i limiti del concetto di naturalità: assumere farmaci per aumentare la produttività intellettuale è presentato né più né meno come l’ingestione di zuccheri in vista di una competizione cicli-stica. Senza voler intentare processi alle intenzioni dei sette scienziati, lo spostamento di una qualsiasi pratica dal campo dell’artificialità a quello della naturalità ha come conseguen-za primaria il depotenziamento di ogni obiezione etica: quale critica morale potrebbe infatti essere mossa a una procedura che nulla presenterebbe di costruito e artefatto? Non solo: la posizione di Greely e degli altri non si limita sic et simpliciter a classificare come naturale ciò che naturale non è, ma (non potrebbe non farlo) derubrica una determinata modalità di assunzione di farmaci dal campo delle attività non consen-tite dalla legge, rendendo insostenibile l’equazione “ricorso all’Icfi = ricorso a pratiche di doping”, o addirittura quella “ricorso all’Icfi = dipendenza da sostanze chimiche”. Ecco allora che non ci si trova dinanzi al mero tentativo di rendere accettabile un sistema di valori (o disvalori), ma di trasfor-mare in leciti atti che non lo sono.
Va da sé, invece, che nulla di naturale può esservi nell’as- sunzione di medicinali anti-Adhd (ma questo discorso po-trebbe farsi per qualsiasi altra categoria di farmaci) al fine 12 R. Ghigi, Per piacere. Storia culturale della chirurgia estetica, il Mu- di incrementare le prestazioni intellettuali. La visione sociale che traspare dall’articolo di «Nature» è quella di un produtti- vismo esasperato per perseguire il quale ogni procedimento è ritenuto legittimo. L’assunzione di Ritalin e Adderall per accrescere la produttività è naturale nella stessa misura in cui lo sono l’industrializzazione e la chimicizzazione dell’agricol-tura. A monte vi è la medesima idea acriticamente iper-pro-duttivista e a valle potrebbero esservi conseguenze altrettanto devastanti13. Questa scienza e i suoi cantori si dimostrano così del tutto strumentali al capitale e al suo dominio sulla natura e sull’uomo. Magari involontariamente (anche se ciò non ne diminuisce limiti e irresponsabilità intellettuali) questa scien-za assume come totem l’utilità economica, e sposa senza col-po ferire l’insensatezza del circolo vizioso lavorare-produrre-consumare. Sganciandosi da ogni momento di confronto con la complessità delle dinamiche sociali e con quel senso del limite che la natura ci insegna in ogni sua manifestazio-ne, questa scienza si svilisce e si auto-riduce a tecnica. In tal modo, da essa non appaiono orizzonti di miglioramento o di liberazione della collettività, ma solo proposte che rendono ancor più stretto e soffocante il giogo del dominio sociale.
Nel 1890, Lev Tolstoj scrisse la prefazione a un libro del medico lettone P.S. Alekséev, intitolato O p’janstve (Sull’ubriachezza). L’autore di Guerra e pace si chiese per quale motivo fosse così diffusa l’assunzione di sostanze vol-te ad alterare lo stato di percezione (alcool, tabacco, op-piacei) e, con il suo tono moralista, si diede una risposta: non si fa ricorso a sostanze alteranti per divertimento o per noia, bensì per l’incapacità di far fronte ai propri doveri e per non sentire i richiami della propria coscienza14. Tolstoj prese in considerazione non solo l’uso di sostanze alteranti per scelta individuale, ma anche perché a quel comporta-mento indotti.
13 Sul modello suicida (e omicida) dell’agricoltura industriale si veda- no almeno gli studi di P. Bevilacqua: La mucca è savia. Ragioni storiche del- la crisi alimentare europea, Donzelli, Roma 2002; La Terra è finita. Breve storia dell’ambiente, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 98-135; Miseria dello sviluppo, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 53-63.
14 L. Tolstoj, Perché la gente si droga?, in Id., Perché la gente si droga? e altri saggi su società, politica, religione, a cura di I. Sibaldi, Mondadori, Ma non soltanto gli uomini drogano se stessi, per soffocare la propria coscienza: sapendo come agisce il vino, e desiderando costringere al- tri uomini a commettere un’azione che è contraria alla loro coscienza, li drogano scientemente, organizzano il drogaggio degli uomini, per privarli appunto della loro coscienza. In guerra, si dà sempre da bere ai soldati fino a farli ubriacare, prima d’un combattimento corpo a corpo. A Sebastopoli tutti i soldati francesi erano ubriachi durante gli assalti. Dopo la presa di Geog-Tepe, quando i soldati non vollero andare a rapinare e ad uccidere i vecchi indifesi, il generale Skobelev comandò di farli ubriacare, dopodiché i soldati obbedirono15.
Sarebbe fin troppo facile dire che Greely e i suoi col- leghi sono altrettanti Mikhail Dmitrievic Skobelev, ma ci sono assonanze che non possono essere sottaciute. Se il ge-nerale russo (come tanti altri prima e dopo di lui) riteneva opportuno manipolare le facoltà mentali dei propri sotto-posti al fine di renderli più incoscienti, coraggiosi e aggres-sivi, oggi dall’articolo di «Nature» traspare una posizione per la quale non sarebbe disdicevole e nemmeno sbagliato somministrare farmaci per aumentare la capacità lavorativa di ogni persona. C’è un filo rosso che lega le due situazioni: l’autoritarismo che le domina.
A questa osservazione si può muovere un’obiezione: a un ordine militare non si può disobbedire, mentre quella di prendere del metilfenidato per aumentare le performance intellettuali rimane (e per gli estensori dell’articolo deve ri-manere) una scelta individuale. Questa proposizione, però, risulta vera solo in teoria: la presunta libera scelta va infatti inserita e contestualizzata in un ambito di convenzioni so-ciali e rapporti di forza economici che solo apparentemente sembrano non vincolanti. Se una simile pratica fosse infatti consentita dalla legge, quanti datori di lavoro non caldeg-gerebbero l’Icfi fino a renderlo di fatto obbligatorio, pena la cacciata del dipendente/collaboratore che non assume farmaci e per questo non rende quanto i colleghi? E quanti lavoratori autonomi riuscirebbero a rinunciare all’Icfi se i 15 Ivi, p. 13. Tolstoj effettua due riferimenti: il primo è alla battaglia di Sebastopoli (1855-1856) con cui, durante la guerra di Crimea, gli Alleati inflissero una durissima e decisiva sconfitta alla Russia; il secondo è alla battaglia di Geog-Tepe (o Geok Tepe), combattuta nel gennaio 1881, con cui i russi sconfissero i turcomanni (turkmeni) alla fine di un lunghissimo assedio: dopo essere entrato in città, l’esercito zarista si abbandonò a un autentico massacro della popolazione civile, uccidendo migliaia di donne loro concorrenti vi ricorressero e si accaparrassero grazie ad esso quote di mercato sempre più grandi? E quanti la-voratori dipendenti non riterrebbero necessario fare uso di farmaci per tenere testa al collega più produttivo e non cor-rere rischi di licenziamento? Rispondere a queste domande potrebbe farci rendere conto che non esiste laccio più vin-colante di quello meno visibile all’esterno e di come sia fuo-ri luogo presentare l’Icfi come un mezzo di miglioramento delle condizioni di lavoro dell’uomo. Al contrario, esso può davvero rappresentare un serio attacco ai diritti minimi di chi lavora e studia. A chi gioverebbe allora la legalizzazione dell’Icfi? A tutti noi in quanto liberi di lavorare di più e di contribuire così alla pubblica felicità, come paiono sugge-rire Greely e gli altri nella loro visione neocorporativa della società? O solo a chi in questa stessa società occupa posizio-ni egemoniche in ambito economico-produttivo poiché ri-fornito di un nuovo e formidabile strumento di controllo? Vanni Codeluppi ha di recente parlato del biocapitali- smo come della forma più avanzata di evoluzione del mo-dello economico capitalistico. Infatti, questo non estrae va-lore solo dal processo produttivo, ma da ogni momento del-la vita quotidiana: il solo atto di scegliere cosa consumare significa fornire indicazioni di mercato (quindi ricchezza) e, in pratica, ogni istante della nostra esistenza è sfruttato per incrementare la redditività delle attività produttive, senza che a noi venga chiesto alcun consenso16. Se si accetta come definizione di Stato totalitario quella secondo la quale è tale lo Stato che tiene sotto il suo controllo ogni manifestazione collettiva e individuale, tanto nella sfera pubblica quanto in quella privata, è automatico notare la natura intrinseca-mente autoritaria della nostra società, nella quale tutto è permesso ma nulla, nemmeno l’atto più libertario, appa-re realmente sfuggire a una forma superiore e oppressiva di controllo17. Ed è altrettanto automatico rendersi conto come anche quanto affermato dai sette scienziati si collochi in questo ambito autoritario.
16 Cfr. V. Codeluppi, Il biocapitalismo. Verso lo sfruttamento integrale di corpi, cervelli ed emozioni, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
17 Sul tema appaiono sempre attuali le riflessioni di H. Marcuse, L’uo- mo a una dimensione, Einaudi, Torino 1967.
Ciò detto, va evitato ogni manicheismo intellettuale. Nessuno può dimenticare come la tecnica (e quindi la scien-za) sia fondamentale per il progresso umano. Tuttavia, pare incontestabile che la scienza non possa prescindere dal de-clinare il concetto di limite, non come ostacolo al raggiun-gimento delle magnifiche sorti e progressive della società, ma come spartiacque tra il momento in cui ogni sua applicazio-ne ha un’utilità collettiva e il momento in cui essa va invece a vantaggio di pochi o presenta dei costi (economici, ma soprattutto sociali e ambientali) superiori ai benefici. In al-tri termini, il mondo intellettuale deve dotarsi quanto prima di una visione equilibrata in grado di coniugare storia, am-biente e scienza, nonché di rendere intelligibile il fatto che il progresso non può essere un’auto-condanna ad avanzare forzatamente verso una meta prometeica non meglio defini-ta, né può essere l’esaltazione autoreferenziale di abbattere muri per il piacere di farlo, non fosse altro perché a forza di distruggere pareti si finirebbe per far crollare la casa in cui si vive. Senza questa visione equilibrata, la scienza fini-sce con lo sposare logiche sterili e dogmatiche, uguali (fatta salva l’ovvia contrarietà del segno) a quelle perseguite dalle alte gerarchie ecclesiastiche. La visione anti-moderna della Chiesa cattolica riguardo il ruolo della scienza nella socie-tà contemporanea risulta talmente inadeguata da diventa-re perfino imbarazzante18, eppure certi eccessi del mondo scientifico finiscono con il conferirle una qualche patente di legittimità. Spiace dirlo, ma l’articolo di «Nature» pare proprio rientrare tra questi eccessi.
Nel momento in cui la scienza ritiene naturale (e legitti- mo) che una persona in perfetto stato di salute possa assu-mere farmaci per aumentare la propria capacità di eseguire prestazioni intellettuali, essa non si cura dello stato di salu-te dei singoli e della collettività, ritenendo ciò secondario rispetto alle esigenze capitalistiche di accrescimento della produttività e di incremento dei profitti. Ognuno di noi, per poter ottenere il massimo dalle proprie facoltà intellet-tive (e identico discorso può farsi per le prestazioni fisiche), ha bisogno di ritmi che consentano il riposo e di periodi di 18 Chi scrive condivide le riflessioni di A. Prosperi, La paura della fine e il biotestamento, in «la Repubblica», 10 marzo 2009, p. 1.
pausa assoluta. In assenza di ciò, ogni uomo in breve termi-ne va incontro alla perdita del proprio equilibrio psichico (e a gravi infortuni in caso di lavoro fisico o sportivo). Gli estensori dell’articolo apparso su «Nature» si dimostrano privi di ogni visione equilibrata poiché non tengono pre-sente questo concetto elementare. Per loro l’assunzione di anfetaminici al fine di aumentare le prestazioni intellettuali è una grande conquista sociale. Ma una società dove è pre-sentato come espressione di democrazia e civiltà il fatto di poter sacrificare la propria salute sull’altare della produtti-vità non sembra il più desiderabile dei mondi possibili.
Vi è poi un’ulteriore ragione di riflessione critica. Devra Davis ha evidenziato come in vari distretti scolastici degli Usa oltre il 10% dei bambini assume o ha assunto il Ritalin per ovviare a difficoltà di mantenimento della concentra-zione e ha ricordato che alcuni ricercatori di due università texane hanno analizzato il sangue di un gruppo di bambini di otto anni prima e dopo un periodo trimestrale di assun-zione del farmaco, giungendo a conclusioni non tranquilliz-zanti: i bambini, infatti, dopo la terapia presentavano seri danni genetici poiché i loro globuli bianchi avevano perso la loro plasticità (vale a dire la capacità di auto-riparazio-ne). Questo danno rappresenta un fattore che predispone lo sviluppo di affezioni tumorali in età adulta19. Studi più recenti hanno ridimensionato la questione senza però voler pronunciare una parola definitiva sui possibili rischi per la salute derivanti dall’assunzione di lungo periodo di Rita-lin e farmaci a esso assimilabili20. Greely e gli altri estensori 19 D. Davis, La storia segreta della guerra al cancro, Codice edizioni, Torino 2008, pp. 386-8. Devis fa riferimento allo studio di R.A. El-Zein, Cytogenetic effects in children treated with methhylphenidate, «Cancers 20 A tal proposito si veda lo studio di K.L. Witt, Methylphenidate and Amphetamine Do Not Induce Cytogenetic Damage in Lymphocytes of Children with Adhd, «Journal of the American Academy of Child and Adolescent Psychiatry», 47(12)/2008, pp. 1375-83 e quello tedesco di S. Walitza, No elevated genomic damage in children and adolescents with at- tention deficit/hyperactivity disorder after methylphenidate therapy, «Toxi- cology letters», 184(1)/2009, pp. 38-43. La dottoressa Witt del National Institute of Environmental Health Sciencies ed alcuni suoi colleghi hanno comunque invitato a leggere con cautela i risultati del loro lavoro (cfr. 19 Nov 2008: Adhd Medications Do Not Cause Genetic Damage in Children, in http://www.niehs.nih.gov/news/releases/2008/adhd.cfm).
dell’articolo non fanno però alcun riferimento a questo pro-blema. E, dato il loro livello scientifico, risulta singolare.
Lo studio di «Nature» non menziona nemmeno le po- lemiche sorte intorno allo stesso Adhd. Per limitarci al nostro paese, nel 2004 è stata fondata l’associazione “Giù le mani dai bambini”, la quale ritiene che le modalità di accertamento della malattia attualmente usate non siano scientificamente valide. Infatti, la diagnosi di Adhd viene di solito effettuata non attraverso esami medici, ma mediante questionari con cui si chiede ai genitori se il bambino sia particolarmente vivace, si agiti, risponda prima che sia stata terminata la formulazione di una domanda, sia invadente o prepotente. Rispondendo in modo positivo a gran parte di questi quesiti, al bambino può essere diagnosticata l’affe-zione. Non è un caso, sostiene l’associazione, che in circa 35 anni negli Usa sia stata segnalata un’autentica epidemia di Adhd: dai circa 150.000 casi diagnosticati nel 1970 si è in-fatti saliti ai quasi 11.000.000 di oggi, pari a quasi un quinto della popolazione scolastica statunitense21. Questa esplosio-ne non pare dettata da un peggioramento delle condizioni di salute dell’infanzia, ma dalla tendenza della società con-temporanea a considerare patologica – quindi da medicaliz-zare – ogni forma comportamentale che vada appena sopra le righe dell’ordinario. Di norma, la quasi totalità dei bam-bini è vivace e, per il solo fatto di voler attrarre l’attenzione altrui, tende ad assumere comportamenti che sfociano nella prepotenza o a non prestare attenzione a ciò che gli viene detto. Questo però non vuol dire né che la maggior parte dei bambini sia da “rieducare”, né che sia affetta da Adhd. Quel che è certo è che detta patologia è diventata un busi-ness per l’industria farmaceutica: dal 1993 al 2003 l’impiego mondiale di farmaci per la cura di Adhd è triplicato. Sem- 21 Per questi dati si veda http://www.giulemanidaibambini.org . Presi- dente dell’associazione è il dottor Claudio Ajmone (il quale presiede anche l’Osservatorio italiano di salute mentale). Alle iniziative dell’associazione hanno aderito vari atenei italiani (tra cui “La Sapienza” di Roma), le Acli, la Cisl, varie sezioni degli Ordini dei medici e numerose realtà dell’asso- ciazionismo italiano. Per quanto concerne l’incidenza dell’Adhd in Italia, l’Istituto superiore di sanità (Iss) la valuta nell’ordine dell’1% all’interno della popolazione compresa tra i 6 e i 18 anni (cfr. Iss, L’Adhd. Epidemiolo- gia, in http://www.iss.it/adhd/cosa/cont.php?id=234&lang=1&tipo=1).
pre nel 2003 nei soli Usa la spesa farmaceutica in questo ambito ha toccato quota 2,4 miliardi di dollari22.
L’esistenza dell’Adhd non pare negabile, ma certo la sua specificità sintomatologica è minima, pertanto essa può es-sere spesso confusa con altre affezioni e le stime che la ri-guardano possono rivelarsi sbagliate per eccesso. Per di più, l’origine di vari disturbi comportamentali sovente può avere cause di tipo socio-ambientale: un uso eccessivo del telefono cellulare da parte delle gestanti e dei bambini sembra favo-rire problemi di comportamento in questi ultimi23, analo-gamente all’esposizione alla cosiddetta “elettricità sporca” (dirty electricity)24, ai campi magnetici, al piombo25 e ad altri fattori inquinanti. Un uso eccessivo di internet, televisione e videogames può sortire i medesimi effetti26. Un’alimen-tazione troppo ricca di zuccheri, coloranti, conservanti ed additivi chimici può incrementare l’incidenza di Adhd27. Al contrario, una dieta basata su carni magre e alimenti non 22 Cfr. R.M. Scheffler, S.P. Hinshaw, S. Modrek, P. Levine, The Global Market for Adhd Medications, «Health affairs», 26(2)/2007, pp. 450-7.
23 H.A. Divan, L. Kheifetz, C. Obel, J. Olsen, Prenatal and Postnatal Exposure to Cell Phone Use and Behavioral Problems in Children, «Epide- miology», (19(4)/2008, pp. 523-9. Si tratta di uno studio che ha coinvolto 24 L’elettricità sporca è una forma di inquinamento magnetico che si crea nelle condutture di elettricità a causa di sovraccarichi sulla rete di distribuzione elettrica. Può essere limitata mediante l’apposizione di filtri specifici. Nello studio di M. Havas, Electromagnetic Hypersensitivity: Bio- logical Effects of Dirty Electricity with Emphasis on Diabetes and Multiple Sclerosis, «Electromagnetic Biology and Medicine», 25/2006, pp. 259-68, è stato notato un nesso tra l’elettricità sporca e le due affezioni citate nel titolo, oltre alla sindrome da affaticamento cronico e all’Adhd.
25 R.W. Tuthill, Hair Lead Levels Related to Children’s Classroom Atten- tion-Deficit Behavior, «Archives of environmental health», 51(3)/1996, pp. 214-20; T.D. Heppright, Results of Blood Lead Screening in Children Refer- red for Behavioral Disorders, «Missouri medicine», 94(6)/1997, pp. 295-7.
26 Cfr. J.G. Johnson, P. Cohen, S. Kasen, J.S. Brook, Extensive Tele- vision Viewing and the Development of Attention and Learning Difficul- ties During Adolescence, «Archives of Pediatrics & Adolescent Medici- ne», 161(5)/2007, pp. 480-6; P.A. Chan, T. Rabinowitz, A Cross-Sectional Analysis of Video Games and Adhd Symptoms in Adolescents, «Annals of General Psychiatry», 5:16 (in http://www.annals-general-psychiatry.
com/content/5/1/16); H. Jeong Yoo, Attention Deficit Hyperactivity Symptoms and Internet Addiction, «Psychiatry and clinical neuroscien- 27 Cfr. J.L. Berdonces, Síndrome de déficit de atención e hiperactividad infantil, «Revista de Enfermeria», 24(1)/2001, pp. 11-4.
calorici parrebbe diminuire i sintomi di detta affezione28. C’è anche chi ha avanzato l’ipotesi di una correlazione tra allergie e Adhd29. Il che significa che la medicalizzazione di questi bambini e gli effetti collaterali da essa derivanti po-trebbero essere ridotti rimuovendo le cause di inquinamen-to e adottando comportamenti ispirati alla salubrità.
In conclusione, un’analisi approfondita dell’articolo di «Nature» ci consente di affermare che esso propugna una nuova forma di eugenetica che, a differenza di quella tradi-zionale, sposta la sua attenzione sull’età adulta30 e considera l’uomo esclusivamente in base alla sua capacità prestaziona-le, spogliandolo di ogni soggettività. L’uomo diviene così lo schiavo della tecnica, un’unità anonima cui non è richiesta la capacità di pensare autonomamente, ma solo di incremen-tare la produzione capitalistica. Alla base di questa forma di eugenetica sta un’idea implicita secondo la quale chi non è prestante è un essere inferiore in quanto inadatto ad aumen-tare la produttività oraria. Esso rappresenta in sostanza una zavorra della quale doversi liberare. L’idealtipo umano con-facente a questa società è l’homo currens di cui ha parlato Franco Cassano31: un essere cui non è chiesto di riflettere e di fornire opinioni, ma solo di lavorare a ritmi sempre più forsennati seguendo pedissequamente le indicazioni del po-tere dominante. Un mondo in cui il pensiero non è richiesto perché ritenuto una perdita di tempo (quindi di soldi) è ine-vitabilmente un mondo in cui la stessa democrazia (la quale si regge proprio sulla possibilità universale di formulare ed esprimere il proprio pensiero) rappresenta inevitabilmente un ostacolo da dover rimuovere perché inconciliabile con una “società dominata dal fondamentalismo della velocità”32. 28 Cfr. L.M. Pelsser, Favourable Effect of a Standard Elimination Diet on the Behavior of Young Children with Attention Deficit Hyperactivity Di- sorder (Adhd): A Pilot Study, «Nederlands tijdschrift voor geneeskunde», 29 Cfr. J.A. Bellanti, A. Sabra, H.J. Castro, J.R. Chavez, J. Malka-Rais, J. Mendez de Inocencio, Are Attention Deficit Hyperactivity Disorder and Chronic Fatigue Syndrome Allergy Related? What Is Fibromyalgia?, «Al- lergy and asthma proceedings», 26(1)/2005, pp. 19-28.
30 Su questo tema, si veda F. Cassata, Molti, sani e forti. L’eugenetica in Italia, Bollati Boringhieri, Torino 2006.
31 F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari 2005 (1996), Questa scienza si è ridotta a essere (non si sa con quale grado di consapevolezza) la portabandiera di un’ideologia gretta e autoritaria quale è quella dell’homo currens. Per chi ha come scopo l’organizzazione e l’ampliamento in totale autonomia intellettuale dell’insieme delle conoscenze al fine di arrivare a una spiegazione oggettiva della realtà, l’essersi resa ancella cieca e sorda delle degenerazioni della nostra civiltà costituisce una sorte davvero triste.

Source: http://www.issm.cnr.it/demetrapdf/boll_19_2009/Pagine%20da%20demetra_imp%2019_luzzi.pdf

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