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Come hanno sottolineato alcuni fra i maggiori quotidiani indiani1
(Times of India 2, Hindustan Times 3), il 21 marzo 2008 è stato ungiorno molto significativo per la maggioranza degli abitanti dell’In-dia, un paese costituzionalmente laico e, al contempo, profondamen-te religioso in un duplice senso, qualitativo e quantitativo. Da unaparte, la profondità e l’onnipervasività del dato religioso in tutti gliaspetti culturali e sociali4 della tradizione locale è una peculiarità chenon sfugge agli studiosi del pensiero (filosofia) e delle arti tradiziona-li (danza, musica, scultura, pittura, architettura), dall’altra, è empirica-mente, socialmente e storicamente dimostrabile l’affermazione se-condo cui l’India è la “casa comune”5 di hindu, buddhisti, jainisti,ebrei, cristiani, musulmani, parsi, sikh, bahai ecc.
L’eccezionalità di questo primo giorno di primavera dell’anno
(2008) in cui ricorre il sessantesimo anniversario della proclamazionedella Repubblica indiana (26 gennaio 1950), risiede nell’essere statoil punto d’incontro temporale delle celebrazioni di cinque festività fa-
Il Times of India è il principale quotidiano indiano in inglese con una diffusione
pari a circa 7,5 milioni di lettori, mentre si stima che The Hindustan Times ne abbia unnumero calcolato intorno ai 3,8 milioni.
Nella rubrica di approfondimento culturale del Times of India, il famoso “Speak-
ing Tree”, del 21-03-2008, un articolo intitolato “One Day, Many Faiths, Multiple Celebra-tions” sottolineava la compresenza nella medesima data di feste relative a diverse religio-ni, tutte presenti in India. http://timesofindia.indiatimes.com/Speaking_Tree.
Nella prima pagina del Hindustan Times del 20-03-2008, l’articolo intitolato “Festi-
ve Friday for Amar, Akbar, Anthony” metteva il luce come hindu, musulmani e cristianisi trovassero a celebrare momenti importanti delle rispettive tradizioni e identità religio-se e cultuali nello stesso giorno, con modalità e attitudini diverse, ma uniti all’interno diuna comune cultura panindiana. http://epaper.hindustantimes.com/blog/2008_03_01_archive.html.
Il riferimento è all’analisi della natura e dell’essenza del sistema castale indiano
Espressione coniata da Amartya Sen per descrivere la natura della tolleranza reli-
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centi capo ad altrettante fedi. Quale migliore occasione per ricordarela ricchezza del panorama religioso e culturale dell’Unione Indiana eper assecondare quella visione – tanto cara ai padri della patria,Gandhi e Nehru per primi – dell’India come spazio sociale da semprein grado di accogliere e amalgamare sapientemente le diversità in ununicum di vitale armonia?
La ricorrenza più diffusamente7 celebrata in questa data è stata
Holi, la cosiddetta “Festa dei colori” hindu, legata in particolar modoalla devozione vaishnava. Come spesso accade, l’origine di Holi è le-gata al mito, che, nella fattispecie, narra di come il demone Hiranya-kashipu avesse stabilito la propria sovranità sulla terra intera, obbli-gando i sudditi a praticare esclusivamente il suo culto, a detrimentodella devozione nei confronti delle altre divinità. Ciò nonostante, suofiglio Prahlad rifiutò di obbedirgli e continuò a pregare il dio Vishnu,suscitando a tal punto le ire del re che questi cercò più volte di ucci-derlo. Nessun tentativo si rivelò tuttavia efficace, in quanto Vishnustesso proteggeva il più fedele dei suoi devoti. Il demone, allora, ri-corse alle arti di sua sorella Holika: poiché essa possedeva il poteredi camminare nel fuoco rimanendone illesa, Hiranyakashipu le ordi-nò di condurre Prahlad dentro a un falò. Anche questa volta, tuttavia,il dio intervenne per scongiurare la morte del giovane: ignara della li-mitazione del suo potere, per cui la sua indennità dipendeva dall’es-sere entrata nel fuoco da sola, Holika morì tra le fiamme, mentrePrahlad fu tratto in salvo da Vishnu.
In ricordo di questo episodio la notte di luna piena, purnima, del
mese di phalgun (febbraio-marzo) vengono accesi nelle piazze deifuochi simili a quello in cui perì la perfida Holika e che pertanto so-no diventati simboli del trionfo del bene sul male. Di fatto le celebra-zioni di Holi si articolano in due momenti. Il primo si svolge la nottedel plenilunio e prevede l’accensione di falò alimentati da legna, fa-scine di paglia e sterco di mucca, attorno ai quali si raccoglie la co-munità locale. L’accensione del fuoco è accompagnata dalla recita-
Il termine “holi” deriva dal sostantivo maschile hindi “hullar”, “baraonda, putife-
rio, tumulto”, che ben descrive la natura giocosa dei festeggiamenti. In tutto il presentelavoro, dato che si citano termini di lingue diverse scritte ciascuna con un proprio siste-ma alfabetico, per semplicità seguiamo il tipo di trascrizione che si trova nei testi inglesi.
Gli hindu costituiscono l’80,5% della popolazione indiana.
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zione di preghiere e mantra, dal lancio di collane di fiori e di veli,orhni, usati tradizionalmente dalle donne indiane per coprirsi la testain determinate circostanze. In genere questi falò bruciano con unagrande, coreografica vampata, che lascia una brace secondo la cre-denza popolare particolarmente ricca di poteri magici: la si raccogliedevotamente ancora accesa e la si adopera per riattizzare i fuochi do-mestici, o anche, in alcune zone, per preparare sostanze medicamen-tose; in certe altre località, invece, si gettano nei falò alcuni semid’orzo, che, una volta arrostiti, vengono esaminati con cura perchésarebbero in grado di mostrare l’andamento del futuro raccolto.
La seconda fase di Holi, “dhuledi”, descrive i festeggiamenti della
mattina successiva, durante la quale bambini e adulti giocano a lan-ciarsi addosso vicendevolmente polveri, gulal, o acque colorate, ri-spettivamente con le mani e con pistole ad acqua, pichkari. Anchel’origine di dhuledi è legata alla devozione vaishnava (krishnaita), inquanto pare che il primo “giocatore” di Holi (in hindi per riferirsi aifesteggiamenti di dhuledi si usa l’espressione “Holi khelna”= “gioca-re Holi”) sia stato il dio Krishna. Il mito narra di come egli avesse unincarnato particolarmente scuro (e questo, infatti, è il significato delsuo nome), mentre la pelle dell’amata Radha fosse straordinariamen-te chiara. Stanca delle ripetute lamentele del giovane e dei malumoriprovocati da quella che il dio giudicava un’ingiusta disparità, sua ma-dre adottiva Yashoda gli suggerì di applicare dei colori sul viso diRadha, così da poterne cambiare la tonalità a piacimento. Il dispetto-so ragazzo accolse di buon grado il consiglio e si mise subito all’ope-ra, dando così l’avvio a quel divertimento scherzoso che ancora oggicaratterizza i festeggiamenti di Holi8. Nella regione Braj, che ospita iluoghi natali e adolescenziali della vita del dio, le celebrazioni rag-giungono una grandiosità senza pari, in cui gli uomini del villaggio diNandgaon (=“villaggio di Nanda”, nome del padre adottivo di Kri-shna) festeggiano Holi con le donne di Barsana (il villaggio di Radha),replicando gli scherzi della coppia divina Radha-Krishna.
Holi è dunque una festa carnevalesca, improntata alla gioia e al-
l’ottimismo, probabilmente l’unica nel mondo hindu priva di rituali diadorazione. Durante le celebrazioni di dhuledi ogni scherzo è per-messo tanto che l’espressione che viene più comunemente rivoltadurante il lancio dei colori è: bura na mano, Holi hai! (“non te laprendere, è Holi!”). E non si tratta solo di scambi di spruzzi colorati,
Il gioco di Krishna intento a spruzzare colori addosso a Radha ed alle altre gopi
(sue compagne nella cura delle vacche durante la sua fanciullezza nei pascoli di Vrin-dhavan) è ricordato e magnificato in diverse miniature e pitture parietali.
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anche la verbalità gode di grande libertà in questa ricorrenza, pren-dendo spunto, di nuovo, da una vicenda mitologica. C’era dunqueuna volta un’orchessa chiamata Dhundhi che si dilettava a incuterespavento e a fare dispetti ai bambini del regno di Prithu. Dhundhiaveva accumulato numerose benedizioni che la rendevano presso-ché invincibile, sebbene, a causa di una maledizione del dio Shiva,fosse estremamente vulnerabile e suscettibile alle urla, agli scherzi eagli insulti dei ragazzi. Stanchi di essere così fastidiosamente tormen-tati, numerosi giovani unirono le loro forze e a furia di grida e beffeverbali di ogni tipo riuscirono finalmente a cacciare l’orchessa dalpaese. Questa è considerata la ragione per cui, durante dhuledi, èpermesso ai bambini lasciarsi andare ad espressioni che normalmen-te sarebbero ritenute offensive e fuori luogo.
Il carattere non convenzionale di Holi e la collocazione dei suoi
festeggiamenti al di fuori del corso normale della vita sono inoltre al-l’origine dell’abitudine di indulgere, in questa data, all’uso di bhang,una bevanda a base di yogurt, oppiacei e cannabinoidi. Non è dun-que un caso che dal punto di vista linguistico tale esaltazione delmomentaneo oblio delle convenzioni sociali trovi una propria, para-digmatica espressione: come già ricordato, Holi infatti non si celebra(manana), ma si gioca (khelna), a sottolineare il tono allegro, manon indispensabile dell’azione, la limitazione nel tempo e nello spa-zio, l’unione di severa determinatezza e autentica libertà. L’umanitàmagnifica in Holi l’ordine della natura: le celebrazioni si collocanoimmediatamente dopo il raccolto e il suo immagazzinamento, met-tendo questa festa in stretta relazione con i tempi e gli auspici legatialle attività agricole.
I festeggiamenti di Holi, pur ancorati al mito e alle tradizioni de-
vozionali e rituali, si tingono inevitabilmente degli aspetti più diretta-mente legati all’attualità. Nel 2008, l’anno di cui ci si occupa qui inparticolare, l’arrivo della festa è stato accompagnato dalla denuncia,da parte dei mezzi di informazione indiani, della pericolosità dell’usodei colori chimici prodotti industrialmente in Cina. Questi, infatti, puressendo allettanti per i loro prezzi concorrenziali, producono il du-plice danno di intaccare la tradizione locale delle tinte naturali rica-vate da radici, cortecce, minerali, piante, fiori, vermi e bucce9, e, so-
La tradizione delle tinte ottenute con materiali naturali è portata avanti da varie ca-
se produttrici, tra cui, per esempio una ONG di Pune, il Kalpavriksh Environment ActionGroup, che promuove l’uso di colori naturali, in armonia con la stessa origine mitica del-la festa. Krishna, infatti, avrebbe usato tinture ricavate dai fiori di tesu, che sboccianoproprio nel periodo corrispondente ad Holi e conferiscono un acceso, brillante colorarancione.
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prattutto, di danneggiare gravemente la pelle umana e l’ambiente, inquanto realizzati o con metalli ossidati altamente tossici o con com-posti di amianto e polvere di gesso, nonché a base di talco.
Quello stesso 21 marzo 2008 per il calendario ebraico coincideva
con il quattordicesimo giorno del mese di adar, in cui tradizional-mente iniziano i festeggiamenti di Purim, destinati a concludersi altramonto del giorno successivo. Numericamente l’attuale presenzaebraica non è accertabile con precisione, in quanto nel censimentodel 2001, l’ultimo ad essere stato effettuato, gli ebrei figuravano nellacategoria degli “Others”, che comprende anche i parsi e i bahai e checonta lo 0,6% della popolazione indiana. Gli ebrei indiani si divido-no in tre gruppi principali e storicamente attestati: Bene Israel, Cochi-ni e Baghdadi, cui si aggiungono i membri di alcune tribù del nord-est del paese che si sono autoproclamati ebrei negli anni Cinquantadel secolo scorso, definendosi “Bene Menashe”. I Bene Israel vanta-no la discendenza più antica che, seppur non documentata, è fon-dante la loro percezione identitaria. Essi dunque affermano di esserei discendenti di una delle dieci tribù perdute del regno di Israele e diessere giunti in India prima della distruzione del secondo tempio diGerusalemme. Essi ritengono che i loro progenitori siano arrivati nelKonkan a seguito di un naufragio, da cui si salvarono a nuoto setteuomini e sette donne, poi insediatisi nel villaggio di Navgaon. NelXVIII secolo i Bene Israel si spostarono dai villaggi rurali del Konkanverso l’attuale Mumbai dove si concentrò la comunità (che infatti haper lingua madre la marathi), prima che la maggior parte di essaemigrasse nuovamente, a metà del secolo scorso, verso lo Stato d’I-sraele.
I Cochini, invece, si stanziarono nel Kerala (parlano, perciò, ma-layalam), con flussi migratori successivi, a partire da un primo grup-po fuggito dalla Palestina in seguito alla distruzione del tempio diGerusalemme da parte di Tito (70 d. C). Anche in questo caso, tutta-via, le fonti popolari differiscono da quelle documentate, che attesta-no la loro presenza nella zona solo dal X secolo d. C. in poi. La co-munità, che non “perse mai i contatti con il mondo ebraico esternoall’India” (Fasana: 1995, 128) si sarebbe dapprima concentrata aCranganore, per poi spostarsi, nel 1524, a Cochin a seguito di pres-sioni da parte di commercianti musulmani. I Cochini si suddividonoin tre gruppi endogami: i Malabari, cosiddetti “ebrei neri”, i primi adessersi insediati a Cranganore; i Paratheshi, o “ebrei bianchi”, di rito
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sefardita; i Meshuchrarim, tradizionalmente servi di entrambi e fruttodi unioni miste.
I Paratheshi (tutti sefarditi) si stabilirono a Cochin fra il XVI e il
XVIII secolo, in fuga dalla Penisola Iberica e poi dai Paesi Bassi e davarie zone tedesche (ashkenaziti o mediorientali). Anche la maggiorparte dei membri di questa comunità migrò in varie ondate nello sta-to di Israele.
Infine i Baghdadi costituiscono il gruppo di più recente penetra-
zione in India, dove arrivarono solo alla fine del XVIII secolo, prove-nendo dal Vicino Oriente. Si stabilirono dapprima a Surat, poi a Kol-kata, dove costituirono una folta comunità economicamente moltodinamica e prospera, ma, contrariamente a quelle dei Bene Israel edei Cochini, profondamente chiusa rispetto all’ambiente sociale in-diano e alle stesse comunità ebraiche già presenti nel paese. Anchelinguisticamente i Baghdadi, che sono arabofoni di base, si differen-ziarono dagli altri gruppi, preferendo adottare l’inglese piuttosto chequalsiasi altra lingua locale. In seguito alla raggiunta indipendenzadell’India dal giogo coloniale britannico, i Baghdadi emigrarono inmassa, ma, a differenza di Bene Israel e Cochini, non in direzione diIsraele, ma principalmente verso l’Inghilterra e gli Stati Uniti.
Pur esigua da un punto di vista numerico, la presenza ebraica in
India copre dunque un arco temporale amplissimo, durante il quale igruppi di più antica penetrazione hanno interagito con le strutturesociali indiane, tanto da risultare divisi in gruppi endogami del tuttosimili a caste. Al contempo, però, hanno mantenuto almeno in par-te10 le proprie tradizioni religiose e una distinta fisionomia identitaria. Le celebrazioni di Purim rientrano fra i tratti caratterizzanti l’identitàebraica11: si tratta di una festività di carattere minore, durante la qua-le il lavoro non è proibito e che commemora, rifacendosi alla narra-zione del Libro di Ester, un episodio avente per protagonista il perfi-do Haman. Questi, deciso a sterminare tutti gli ebrei residenti nelle127 province su cui regnava Assuero, tirò a sorte (pur) per saperequale sarebbe stato il momento migliore per attaccare gli ebrei, ma,
Nei Bene Israel si è verificato un processo di assimilazione piuttosto marcato, tan-
to che, fino al riconoscimento della loro appartenenza alla stirpe ebraica da parte dei Co-chini, essi erano noti come una casta di spremitori d’olio, shanvar teli, la cui peculiaritàconsisteva nel non lavorare il sabato (shanvar in marathi). La loro forte indianizzazionepose una serie di problemi quando essi decisero di emigrare in Israele, tanto che dal1948 al 1954 su 2300 immigrati 337 furono rimandati in India. A venir messa in discussio-ne era precisamente la loro ortodossia.
E. Fasana afferma che “le feste dei Bene Israel avevano nomi marathi e non ebrai-
ci. Così Purim era festeggiata come Holi, la festa del fuoco purificale e del capovolgimen-to delle gerarchie tradizionali” (Fasana: 1995, 118).
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come si vide in seguito, quello che scelse si rivelò particolarmentesfortunato. Il messaggio nascosto dietro al nome di “Purim” è che ilfuturo non è deciso dal fato, ma da Dio. Proprio per dimostrare chele cose non sono come sembrano e che la volontà di Dio è imper-scrutabile, è tradizione a Purim mascherarsi e fare una parodia delleautorità costituite. Caratteristica precipua della notte di Purim e delservizio nella sinagoga nella mattina successiva è la lettura pubblicadella Megillah, nome con cui si designa il Libro di Ester, nella formadi un rotolo pergamenaceo, manoscritto e talora riccamente illustra-to. Il passo della Torah che viene letto nello stesso servizio mattutinosi riferisce alla cancellazione del nome di Amalek, in quanto Hamanera un suo discendente. Basata su questo elemento è l’usanza, disap-provata da alcuni, di far suonare rumorosamente delle raganelle ogniqual volta viene pronunciato il nome di Haman. Altri costumi per Pu-rim sono che ciascuno debba regalare almeno due tipi di cibo a unamico, fare almeno una donazione a due poveri e prendere parte adun pranzo durante il quale si beve vino in grande abbondanza12.
Il 21 marzo è, poi, la data in cui ogni anno i parsi indiani celebra-
no la festa di Nawruz. Anche i parsi, come gli ebrei, costituisconouna piccola minoranza religiosa e, tuttavia, straordinariamente fervi-da da un punto di vista sia culturale sia economico. I parsi, ossia“persiani”, sono i discendenti della comunità zoroastriana che, dopol’islamizzazione della Persia, migrarono in India. In seguito all’occu-pazione della Persia, gli arabi e i loro successori musulmani al pote-re nella zona, pur qualificando i seguaci dello zoroastrismo come“Gente del Libro”, cioè fedeli di una religione rivelata, li sottoposeroa persecuzioni che determinarono lo spostamento di gruppi di maz-dei prima nelle zone periferiche del paese, poi sulle sponde del Gol-fo Persico. L’emigrazione fu favorita dall’aspirazione di alcuni gruppia mantenere la religione zarathustriana nelle sue forme più pure,preservandola dal contatto con una popolazione che si era rapida-mente islamizzata. La principale fonte d’informazione rispetto alle vi-cende dell’esodo mazdaico è costituita da un tarda opera in versi, laStoria di Sangian, redatta in persiano nel XVIII secolo. Vi si narra dicome, dopo la sconfitta e l’uccisione dell’ultimo re dei sasanidi, Yaz-
Una raccomandazione talmudica stabilisce che un uomo deve bere fino a che non
sia più in grado di dire se stia benedicendo Mardocheo o maledicendo Haman.
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dagard III, nel 651, un gruppo di zoroastriani si rifugiò nel Kohistan,nel nord del Kashmir, trasferendosi, poi, nel porto di Hormuz. Daqui, nel 766, i discendenti dei primi emigrati si sarebbero imbarcatiper l’India, fermandosi prima a Diu (Kathiawar), poi, nell’875, a San-gian (Gujarat), a circa 80 chilometri dall’attuale Mumbai. Proprio daquesto centro la comunità zoroastriana, accresciuta numericamentedagli arrivi a più riprese durante il X e l’XI secolo di altri profughipersiani insofferenti della dominazione turca, si diffuse in tutto il Gu-jarat (XII secolo) dove vennero a costituirsi i principali luoghi cultua-li parsi.
Il radicamento della comunità parsi sul suolo indiano e i suoi rap-
porti con la popolazione locale sono ben descritti nel racconto tradi-zionale dell’incontro fra il portavoce della comunità da poco giuntasulle coste del Kathiawar e il raja locale. Il sovrano interrogò il nuo-vo arrivato su quali fossero gli obiettivi della migrazione della suagente e ne ebbe questa risposta: i parsi altro non chiedevano che li-bertà di culto, un modesto appezzamento di terra da coltivare pernon essere di peso al popolo che li avrebbe ospitati e la possibilità dieducare i giovani nelle proprie tradizioni. A sua volta il raja doman-dò che cosa essi avrebbero dato in cambio al paese, se li avesse ac-colti. Al che, l’interlocutore parsi versò un po’ di zucchero in una cio-tola di latte e spiegò che essi avrebbero cercato di essere come quel-la insignificante quantità di zucchero: indistinguibile dal latte stesso,ma capace di apportarvi una maggiore dolcezza. Il raja acconsentì ache la comunità si insediasse nel suo territorio ponendo, però, cin-que condizioni: che fosse informato sulla religione e i costumi zoroa-striani, che venisse adottata la lingua locale, che le donne vestisserocome le indiane, che si disarmassero e che i loro matrimoni fosserocelebrati nelle ore serali. Nel XVIII secolo il nucleo più importantedella comunità fu attratto dal grande sviluppo commerciale di Bom-bay13, che ne permise un forte aumento di status14 e di ricchezza.
Lo zoroastrismo, fra le religioni antiche, è quella in cui la sacraliz-
zazione del tempo assume probabilmente le strutture più importanti,giungendo a una totale santificazione del tempo annuale: l’anno è di-viso in dodici mesi, ciascuno di trenta giorni, più cinque giorni chevengono aggiunti alla fine dell’anno stesso; ogni mese è messo in re-lazione con una figura divina, amesha spenta o yazata, e ciascun
Anche oggi nella città – recentemente ribattezzata “Mumbai” – risiede la comunità
parsi più numerosa del paese. Qui stesso è stato costruito il suo monumento più signifi-cativo: le celebri cinque Torri del Silenzio, dove vengono esposti i cadaveri dei defunti.
Molti dei membri della comunità di Mumbai divennero i mediatori preferiti dai bri-
tannici nei loro rapporti con la popolazione locale.
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giorno del mese è, a sua volta, legato a una divinità (il primo giornodi ogni trentina è, per esempio, dedicato ad Ahura Mazda). In questosistema, esistono, poi – in corrispondenza delle fasi significative del-l’anno agricolo, che ha inizio con l’equinozio di primavera – periodiin cui la carica sacrale si condensa.
Tutti i significati di attesa, di liberazione e di rinnovamento, che
sembrano sottintesi e indecisamente espressi nelle varie festività di-stribuite nel corso dell’anno, assumono il loro pieno rilievo religiosoe sociale nella festa con la quale si chiude l’anno vecchio e si aprequello nuovo. Quest’ultima, chiamata “Nawruz”, letteralmente “nuo-vo giorno”, cade il primo giorno di farvardin, primo mese del calen-dario solare iranico, in coincidenza con l’equinozio di primavera. Sebbene sia un’eredità della Persia zoroastriana, è l’unica festività ira-nica ad essere osservata da più di un gruppo religioso sia nell’attualeIran, sia nei luoghi di immigrazione; è anche la più lunga (dura tradi-zionalmente dodici giorni) e pittoresca. Le origini del Nawruz sonooscure: secondo una leggenda popolare, la sua istituzione si deve aGiamshed, mitico sovrano dei tempi antichi; tuttavia, è molto proba-bile che il Nawruz fosse dapprincipio una festività pastorale che se-gnava il passaggio dall’inverno all’estate, e che in seguito fosse eleva-ta al rango di festa religiosa dal profeta Zarathustra.
In tempi più antichi il Nawruz era preceduto immediatamente da
Hamaspathmaedaya, la grande festa religiosa del trentesimo giornodell’ultimo mese dell’anno (20 marzo) dedicata agli spiriti dei defun-ti, le fravashi, che, in tale periodo, tornavano sulla terra per visitareluoghi e persone della vita di un tempo. Le prime fasi delle celebra-zioni, pertanto, consistevano nella pulizia delle case e nella prepara-zione di cibi e bevande per accogliere al meglio gli spiriti in visita, esi svolgevano in un’atmosfera non ancora gioiosa e allegra, quantopiuttosto sobria e commemorativa. Nel tempo le due festività finiro-no per diventare una il preludio dell’altra e le celebrazioni di entram-be confluirono nel Farvardigan, che di conseguenza si articola in unafase più austera e in una di prorompente vivacità. Per gli zoroastrianila festa celebrava anche la creazione del fuoco e del suo custode ce-leste, Artavahisht, oltre che la ricomparsa sulla terra di Rapithwan. Sicredeva che questi, considerato l’aiutante del potente dio Mehr (l’a-vestico Mitra) e la personificazione del mezzogiorno, del tempo idea-le, si ritraesse sotto terra durante i mesi invernali per proteggere leradici delle piante e le sorgenti d’acqua dal gelo, creazione dei de-moni. Spogliato dalle sue connotazioni più specificamente zoroa-striane, il Nawruz è sopravvissuto all’avvento dell’Islam e non ha maicessato di essere la festa nazionale dell’Iran. I parsi dell’India lo chia-mano “Giamshedi Navroz” e continuano a celebrarlo in modo parti-
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Il giorno dell’equinozio vernale è pure festeggiato con la massima
solennità dai bahai, per i quali pure esso rappresenta l’inizio dell’an-no nuovo ed è perciò denominato “Nawruz”, come per i parsi. Anchela comunità bahai, infatti, si è originata in Persia (XIX sec.), e, a cau-sa di incessanti persecuzioni, ha formato nuclei un po’ ovunque pri-ma nei paesi vicini, poi in tutto il mondo. A fondarla fu Baha’u’llah(1817-1892), assertore, sulla scia dell’insegnamento del profeta Bab(1819-1850), della necessità della riunificazione di tutti i credi presen-ti al mondo nella sola onnicomprensiva fede delle origini. La missio-ne sua e dei suoi seguaci doveva perciò essere quella di educare gliuomini ad un’assoluta moralità di costumi e all’apertura verso il pros-simo in tutti i sensi: accoglienza, rispetto, adeguamento, servizio15. Priva di culto, quindi di sacerdoti, ma guidata dal sacro scritto Kitab-i-Aqdas (Il Libro più santo) redatto dal fondatore, la fede bahai sipresenta, perciò, con caratteristiche riprese da varie altre religioni,tanto più che nei suoi templi16 non si tengono cerimonie, ma sessio-ni di preghiera e letture commentate della Scrittura propria, ma an-che zoroastriana, cristiana, musulmana, ebraica, hindu, buddhistaecc.
Il Nawruz dei bahai è preceduto da un digiuno di diciannove
giorni, al termine del quale le famiglie dalla comunità, dopo un in-tenso momento di preghiera e meditazione, si fanno reciprocamentevisita per pranzare insieme e per scambiarsi doni di vario genere.
Oltre a hindu, ebrei, parsi, bahai, nel 2008 anche i cristiani hanno
ricordato, il medesimo giorno, un momento importante della propriatradizione religiosa: il Venerdì Santo. Al lettore italiano non sarà ne-cessario ricordare il significato e la valenza della passione e dellamorte di Gesù nel sistema teologico e cultuale cristiano, ma sarà piut-tosto opportuno segnalare l’antichità della presenza cristiana in India. Questa, seppur confinata a un’esigua minoranza rappresentata dal2,31% della popolazione totale, equivalente all’incirca a 20 milioni diindividui, vanta origini antiche. La penetrazione cristiana in India si
Vero bahai è definito colui che realizza in sé la perfezione dell’uomo attivo. Dal
precetto del servizio discende poi la creazione di centri educativi, culturali e di benefi-cienza ad opera della comunità.
Famosissimo per la sua ardita architettura quello di Delhi, il Lotus Temple, che ri-
propone nel marmo candido la forma appunto del fiore di loto stilizzato (1986).
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articola in tre momenti legati all’evangelizzazione dell’apostolo Tom-maso, alla dinamicità della presenza portoghese nel XVI secolo e, in-fine, all’opera “di colonizzazione «globale» dell’India elaborata dalleautorità britanniche” (Milanetti: 2003, 87).
Gli storici concordano nel collocare nel I secolo la nascita delle
prime comunità cristiane in Kerala. Queste ultime intrattenevano le-gami con la Chiesa persiana, accettavano la liturgia caldea, mantene-vano a capo della loro vita religiosa un vescovo caldeo, usavano l’a-ramaico nella liturgia e rimasero indipendenti dalla cristianità occi-dentale fino al XVI secolo, quando entrarono in contatto con i porto-ghesi. Questo primo nucleo storico di cristiani indiani, noti come“cristiani di San Tommaso” o cristiani siriaci, rivendica la propria di-scendenza dalla casta dei brahmani Nambudiri convertiti, appunto,da San Tommaso, che si suppone sia giunto in India nel 52. Attual-mente fra i cristiani di San Tommaso del Kerala si distinguono duegruppi endogami: i Vadakkumbhagar, evangelizzati originariamenteda San Tommaso apostolo, i Thekkumbhagar che si reputano discen-denti da Tommaso di Cana, un mercante, viaggiatore e pellegrinogiunto in India dalla Persia nel IV secolo con un seguito di preti e ve-scovi siriani.
Una successiva fase di cristianizzazione del paese si ebbe con l’ar-
rivo dei portoghesi, per i quali l’opera di conversione al cristianesimoassunse i contorni di una vera e propria impresa di stato17. Vasco daGama approdò nel porto di Calicut, sulle coste del Malabar, il 27maggio 1498, inaugurando “un’era di penetrazione imperialista e dioccupazione, da parte dell’Occidente europeo, che si sarebbe pro-tratta per quattro secoli e mezzo” (Wolpert: 1998, 130). Le acquisizio-ni territoriali portoghesi nel paese, Goa, Diu e Daman, conquistate ri-spettivamente nel 1510, 1525 e 1559, si dimostrarono, oltre che le pri-me, le più durature occupazioni europee in India18. Nel 1542 arriva-rono i primi missionari gesuiti a Goa. Dopo un notevole successocommerciale iniziale, tuttavia, il tentativo portoghese di monopoliz-zare il traffico delle spezie fallì e, in seguito alla terribile sconfittasubita nel 1565 a Talikota dal potente regno hindu di Vijayanagar, fi-no ad allora principale alleato dei lusitani nel Deccan, i traffici e il
Attraverso l’istituzione del Padroado, che si configurava come un insieme di privi-
legi – e di doveri – concessi dalla Santa Sede al re del Portogallo, il Papa demandava aquest’ultimo compiti di espansione del cristianesimo e quindi di direzione ed organizza-zione dell’attività missionaria, dando così il via alla sovrapposizione fra politiche civili edecclesiastiche.
Goa, Diu e Daman divennero parte dell’Unione Indiana solo nel 1961, vale a dire
tredici anni dopo la proclamazione della repubblica.
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potere portoghese cominciarono a declinare, lasciando ampio spaziodi inserimento e di manovra nel ricco territorio indiano alle compa-gnie mercantili di paesi quali l’Olanda e l’Inghilterra. Cristiani, manon cattolici, questi nuovi colonizzatori europei erano entrambi pocointeressati all’attività missionaria e ostili all’evangelizzazione intrapre-sa dagli ordini cattolici fino a quel momento. Fu così che a metà delXVII secolo terminò la seconda fase della diffusione del cristianesimonel subcontinente.
La terza fase dell’evangelizzazione cristiana in India si svolse nei
secoli XIX e XX, e interessò in particolare le regioni settentrionali enordorientali. All’iniziale rifiuto da parte della Compagnia delle Indiebritannica rispetto al perseguimento di qualsiasi attività di proseliti-smo religioso, subentrò il Charter Act del 1813 per il quale la politicamissionaria non solo andava permessa, ma anche attivamente soste-nuta. Le conversioni in massa avvenute in questa terza e ultima fasedella diffusione del cristianesimo in India, i cui principali fruitori fu-rono i membri delle cosiddette caste depresse e gli intoccabili, sonostate spesso attribuite, ancor più che quelle risalenti al periodo pre-cedente, a incentivi di carattere materiale offerti dalla Chiesa (“breadand butter Christianity”) e, per questo motivo, gli intoccabili e glishudra divenuti cristiani nei secoli XIX e XX sono stati definiti “RiceChristian”.
Infine, la comunità numericamente più cospicua dopo gli hindu,
quella musulmana, che costituisce il 13,4% della popolazione, ha fe-steggiato, in India, il 12 rabi’a al-awwal del calendario lunare islami-co, nel 2008 corrispondente all’equinozio di primavera, “Bara Wafat”. Da un punto di vista sociale, i musulmani indiani si distinguono inashraf e non ashraf. I primi rivendicano un’ascendenza straniera e sisuddividono a loro volta in sayyid, discendenti in linea diretta dallafamiglia del Profeta, shaykh, i cui antenati appartenevano ad altre tri-bù arabe, mughal, arrivati in India con gli omonimi conquistatori tur-chi, e pathan, originari dell’Afghanistan e delle regioni di nord-est. Inon ashraf, designati come “atraf”, “ajlaf” e “arzal”, sono invece i di-scendenti di convertiti locali. La presenza musulmana in India, seb-bene più recente di quella cristiana, ebraica e parsi, ha avuto un ruo-lo politico, sociale e culturale nella storia del paese difficilmente sot-tovalutabile. Essa rintraccia le sue origini nell’VIII secolo, quando nelSind e lungo le coste si stabilirono colonie permanenti di mercantiarabi e persiani, provenienti dal Golfo Persico, dall’Oman e, in misu-
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ra minore, dal Hadramaut19. Il primo documento storico che attesta lapresenza di comunità musulmane lungo la costa del Coromandel e interritorio tamil, è una targa di rame che riporta un editto dell’875, conil quale il sovrano di Madurai concede asilo a un gruppo di immigra-ti arabi (Bredi: 2006, 23). Per ciò che concerne il Sind, invece, essoera già stato conquistato sotto i califfi ‘Abd al Malik (692-705) e Wa-lid I (705-715) e, per tutto il periodo ommayade, aveva mantenuto icollegamenti con il centro del califfato, iniziando a distaccarsene so-lo a partire dalla metà dell’VIII secolo. La storia politica del Sind tra lafine del IX e l’inizio dell’XI secolo riguarda essenzialmente i principa-ti arabi che vi si erano costituiti. Con l’arrivo di Mahmud di Ghazna(969 o 971-1030) nel 1025 si inaugurò una nuova fase della penetra-zione islamica nel paese, preludio alla nascita di veri e propri20 statimusulmani in India. Con i ghaznavidi, all’inizio dell’XI secolo, la pre-senza musulmana acquisì un carattere marcatamente persiano, a dif-ferenza di quello arabo precedente. Il periodo ghaznavide fu seguitoda quello ghoride, che pose le premesse della nascita del sultanato diDelhi (1206-1526) che si configura come il primo esempio di statomusulmano in Asia meridionale, completamente radicato in territorioindiano e indipendente da più vaste entità imperiali islamiche. Al sul-tanato di Delhi seguì, con la sconfitta dell’ultimo sovrano Lodi, Ibra-him II (r. 1517-1526), la fondazione dell’impero mughal. Inauguratoda Babar (1483-1530), capostipite di una dinastia che vide l’avvicen-damento di grandi, ancorché discusse, personalità politiche, culturalie religiose, l’impero mughal tramontò definitivamente solo nel 1858,quando l’ultimo imperatore, Bahadur Shah II (1775-1862), fu depostoed esiliato in Birmania. La fine della supremazia politica a favore deinuovi dominatori britannici non determinò il tramonto culturale e so-ciale della comunità musulmana, suo, anzi, è stato il ruolo decisivonel dibattito politico che ha delineato la fisionomia dell’India post-coloniale (formazione del Pakistan).
Il termine con cui nel mondo islamico non indiano è ricordato
l’anniversario della nascita di Maometto è “mawlid an-nabi”, in cui“mawlid” è una parola araba che indica il momento e il luogo di unanascita. I mawlid divennero ben presto eventi molto popolari asso-
Mentre le comunità settentrionali e deccane furono successivamente inglobate dal-
le conquiste dei sultani di origine turca provenienti dal nord, quelle del Malabar e delmeridione poterono mantenere attraverso i secoli le originarie caratteristiche arabe.
Fino ad allora esistevano in India solo i due principati islamici di Multan e Mansu-
ra, formatisi in seguito alla spedizione punitiva araba del 712 e di espansione e portatapolitica estremamente limitata.
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ciati al misticismo, durante i quali gli ordini sufi si riunivano pubbli-camente, recitavano canti ritmici in onore di Dio e, in qualche caso,entravano in trance. La data esatta in cui fissare quello del Profeta èin effetti ignota, ma l’anniversario della sua nascita è ricordato il 12rabi’a al-awwal del calendario lunare islamico, un giorno prima del-l’anniversario della sua morte, avvenuta nel 632. I primi festeggia-menti di cui si ha notizia per la sua nascita furono celebrati verso lafine della dominazione fatimide in Egitto (909-1171) e si diffuseropresto in molte altre zone del mondo islamico21. In India il nome concui si indica la festa che commemora tanto la nascita del Profeta,quanto la sua morte (urs), è “Bara Wafat”. Le celebrazioni indianeprevedono, oltre alla recitazione e alla lettura del Corano e ai cantidevozionali, una cerimonia durante la quale le impronte simbolichedel Profeta, scolpite nella pietra, sono cosparse con pasta di sandaloo polveri profumate, a volte affiancate da una rappresentazione delcavallo con cui si ritiene che Maometto sia asceso in paradiso. Partedel rituale prevede anche la preparazione di vivande particolari e ladistribuzione di dolci. Nelle ultime tre decadi si è consolidato l’uso diaccompagnare le celebrazioni con una processione pubblica, trasfor-mando profondamente le antiche modalità di svolgimento, che tradi-zionalmente si articolavano intorno ai due poli della moschea e del-la casa privata22.
Le convergenze calendariali e devozionali racchiuse in questo 21
marzo 2008 mettono dunque in evidenza due aspetti importanti del-l’India: da un lato le sue variazioni regionali e culturali, dall’altro quel“concetto unitario del paese che è sopravvissuto a tutta la sua lungastoria” (Sen:2005, 325). Entrambe queste caratteristiche sono statesottolineate in modo significativo dalla stampa locale, che si è larga-mente occupata di questo venerdì eccezionalmente santo: esso è di-ventato nelle pagine dei quotidiani del paese l’emblema stesso diuna Weltanschauung nutrita di comprensione e di tolleranza, di una
Sebbene i mawlid si siano sviluppati anche per santi e altre persone venerabili,
specialmente in Egitto, quello dedicato al Profeta è rimasto il più elaborato.
È interessante il taglio dato a un articolo comparso su The Hindu del 23/03/2002
in cui si associavano le modalità di festeggiamento di Bara Wafat a quelle di Ganesh Cha-thurthi (la più importante celebrazione del dio dalla testa di elefante) così come svolte inparticolare nella città di Bangalore.
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tradizione di accoglienza e integrazione di culture diverse in grado didar vita ad espressioni di straordinaria complessità e di altrettanta ric-chezza umana. Risulta dunque chiaro nella scelta della stampa nazio-nale il desiderio di veicolare un’immagine del paese improntata all’u-nitarietà e all’armonia, dove è predominante la prospettiva della con-vivenza pacifica di gruppi religiosamente e culturalmente portatori divalori e tradizioni differenti, rispetto a quella delle divisioni interco-munitarie.
Holi non è mai stata tanto holy.
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Réjan Vigot Work addressLauney Research Unit for Molecular NeurocyberneticsRIKEN – Brain Science InstituteHirosawa 2-1, Wako, Saitama 351-0198, JapanTel.: +81(0)48-462-1111 (ext. 7488) Fax: +81(0)48-467-5485E-mail : [email protected] position2009- Researcher, Launey Research Unit, RIKEN – BSI, JapanUniversity Degrees1996 Ph. D. in Neurosciences, University of Paris XI, Orsay,
Advances in the topical treatment of acne and rosacea From: Journal of Drugs in Dermatology | Date: 9/1/2004 | Author: Ceilley, Roger I. Acne and rosacea are common skin diseases which may present similarly and both involve inflammation. Both can result in significant cosmetic impairment and lead to quality of life decrements if not optimally treated. The conventional approach for both d